Le domande più difficili da fare sono quelle che fanno sempre tutti. Questo pensiero mi ronzava in mente all’idea di intervistare Paolo Lorenzi. Ma Paolo, ahi noi, non è più qui. Ieri è stato eliminato al primo turno del Challenger di Parma – Internazionali di Emilia Romagna da Giulio Zeppieri, in una sfida tra nati nel primo anno di una decade, con la differenza di vent’anni tra l’uno e l’altro, in quella che si chiama di solito una classica sfida generazionale. Paolo avrà preso un altro treno, o un altro aereo, e sarà ad allenarsi e a sudare nel suo ennesimo campo, preparandosi per il prossimo torneo.
La domanda che probabilmente non avrei fatto per la paura di ricevere una risposta di circostanza sarebbe stata come un ospite indesiderato che aleggia nell’aria. Nessuno vuol sentirsi chiedere del proprio ritiro, o di un futuro che probabilmente non ha ancora deciso o programmato. E nel caso di Lorenzi, più delle parole rispondono i suoi silenzi, i suoi occhi aguzzi concentrati in attesa di rispondere al servizio dell’avversario, quella smorfia e quella ruga di concentrazione al di sotto dell’immancabile cappellino girato all’indietro che ci dicono tutto. Ci parlano di Caltanisetta, di Indian Wells, di Bucaramanga e dei sogni di un bambino. Nessuno dovrebbe avere il diritto di fare quella domanda. In molti hanno annunciato la morte sportiva di Paolo Lorenzi, e in molti hanno dovuto rimangiarsi parecchie volte la loro infausta previsione. Quando da giovane era ritenuto un tennista privo di talento, prima che vincesse 21 challenger e un titolo ATP. Quando era stato additato un giocatore da Challenger e nulla più, prima che raggiungesse il ranking di numero 33 al mondo e rimanesse tra i top 100 per più di otto anni. Quando era dato per finito, bollito dopo otto primi turni persi consecutivamente, prima di tornare di nuovo tra i primi cento giocatori del mondo.
E’ inutile girarci intorno, quel momento dell’inevitabile addio prima e poi arriverà, forse tra non molto tempo. Chissà se quell’invito incessante proveniente dal suo angolo nel momento di maggiore difficoltà contro Zeppieri (“Muovi le gambe…muovi le gambe”) è un tenero sostegno all’eterno lottatore, e le gambe torneranno a girare come sempre, o è il segnale che a 38 anni la forza non è più quella di un avversario più giovane di venti. Magari Paolino si inventerà il suo ennesimo exploit in un grande torneo, o magari smetterà a breve. Magari aprirà un’accademia negli Stati Uniti o magari si godrà un po’ di meritato riposo nella sua amata Siena. Qualsiasi cosa farà, la sua intelligenza e la sua umiltà saranno la garanzia di un sicuro successo. Perché Paolo Lorenzi è l’eroe normale che si trova dentro di noi. Siamo noi che ci guardiamo allo specchio e troviamo il primo capello bianco. Siamo noi che ci mettiamo in fila ogni mattina con la macchina per andare a lavorare. Siamo noi che andiamo a correre con il freddo e con la pioggia, senza sapere perché. Una visione romantica – direte voi – che non si addice a un tennista milionario che ha calcato i campi di Wimbledon e del Roland Garros. Ma Paolo non ha mai avuto in dote da Lassù il diritto di Del Potro o il rovescio di Gasquet. Paolo ha due gambe inesauribili e un grandissimo cuore, un talento che in pochi si possono permettere. Paolo Lorenzi, l’uomo a cui non ho mai posto nessuna domanda e che ho sempre stimato.
Alessio Laganà
Salta fuori la possibilità di giocare un torneo in Costa d’Avorio, se ve lo siete persi è abbastanza normale, non l’hanno trasmesso certo sulla Rai o su Sky sport.
Ospitalità a carico dell’organizzazione e bottino finale di 15 mila euro che era più del premio che si vinceva per una semifinale in un Challenge.
Chiamo Petrazzuolo e ci mettiamo d’accordo.
-Se andiamo siamo teste di serie 1 e 2, ci facciamo anche il doppio e siamo a posto.-
Si parte ma una volta arrivati ci rendiamo conto subito che si tratta una situazione difficile e al limite del paradossale.
Il Paese vive una terribile guerra civile e noi ci spostiamo il minimo indispensabile, tenendo sempre stretto in mano il passaporto che in certi contesti protegge di più di un giubbotto antiproiettile.
Tutti gli atleti erano stipati in un albergo del centro città che era completamente intasato di militari armati fino ai denti a tutela della nostra sicurezza.
C’era un ascensore solo, vecchio e scassatissimo, ma soprattutto lento da morirci dentro anche solo per fare un paio di piani.
Non lo si poteva prenotare.
Un dipendente dell’albergo ci restava dentro 24 ore al giorno fermandosi ciclicamente ad ogni piano, come se fosse un autobus.
Per consumare il primo pranzo della settimana, al pian terreno, ci abbiamo messo più di due ore.
Dopo tre giorni, tre, Petrazzuolo decide che è troppo per lui e opta per il rimpatrio.
Sono solo, abbandonato, con una sala pranzo virtualmente irraggiungibile e 4 libri a farmi compagnia.
Mi facevo portare i pasti in camera ed uscivo il meno possibile.
Con il passare dei giorni e l’avanzare del torneo le cose si però facevano sempre meno pesanti, alla fine la mia naturale voglia di condivisione aveva avuto la meglio e nel fine settimana me ne andavo a spasso per la città con il gruppetto dei tennisti inglesi.
C’erano anche giovani promettenti che avrebbero poi sono entrati nella top 100: Donskoy, Haider-Mauer, Martin.
Ho vinto il quarto proprio contro Andrej Martin.
Qualcuno successivamente, a giorni di distanza, mi ha detto:
-Quell’incontro l’hai vinto prima ancora di iniziarlo sai? Ho visto Martin affacciarsi dalla finestra della sua stanza in albergo per prendere un po’ d’aria. Ma quando si è spinto fuori ha visto te nel parcheggio che facevi atletica sotto il sole e con 40 gradi! Non ci voleva credere, lui boccheggiava e tu facevi atletica! E come faccio a vincere? ripeteva-
Ho vinto quel torneo battendo in finale un africano.
Numero 500 del Mondo.
Cinquecento.
Durante la finale c’erano i tifosi che ballavano sugli spalti e dei suonatori di bonghi ai quattro angoli del campo che non hanno mai smesso di battere forte con le mani.
Silence.
Silence please.
Chissà come avrebbe reagito quel pubblico alla voce dello speaker di Wimbledon.
Quel periodo ha segnato l’inizio della mia ascesa e la Costa d’Avorio non resta il solo torneo pazzesco che ho giocato: ce ne sono molti altri.
Esperienze uniche.
La mia ascesa mi ha portato molto in alto, fino a vincere un torneo del circuito ATP anche se è successo solo l’anno scorso, a Kitzbuhel.
L’impresa ha avuto un risalto nazionale perché, a quanto dicono, sono stato il meno giovane della storia a riuscirci per la prima volta.
10 anni esatti prima avevo giocato quel torneo per la prima volta e mi ricordo che mi ero emozionato perché nel frigo in camera c’era una Sprite e potevo berla senza doverla pagare.
Quel piccolo, strano dettaglio mi aveva fatto sentire come se fossi più vicino al tennis dei grandi.
Fonte: La vita es un Carneval, Paolo Lorenzi
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